Appagati

Mi sto domandando e sto chiedendo in giro (quando meno la gente se lo aspetta) cosa ci faccia sentire appagati.

E’ che la settimana scorsa, alla fine di un’ora di pratica di Vinyasa Yoga, l’insegnante Barbara – minuta e scolpita nel corpo e nell’anima dalla pratica, apparentemente saggia ed equilibrata, sempre molto precisa nella descrizione delle asanas, ma meno affascinante del guru indo-napoletano Giovanni – ci ha detto, in mezzo loto:

‘Pensiamo a come eravamo prima di questa ora (pausa) e confrontiamolo con come ci sentiamo adesso (pausa). Rilassati, più consapevoli del nostro corpo (pausa) profondamente appagati. Namastè.’

Ora, con tutta la mia resistenza verso gli aspetti fuffosi del pacchetto-ayurveda, eredità ed evoluzione consumistica di tutto il mondo hippie anni ’70, ormai so che c’è qualcosa di autenticamente sano nella pratica dello yoga e della meditazione.

Qualche anno fa mi sono detta che se tutto l’Occidente stressato rincorre da decenni benessere e pacatezza attraverso discipline millenarie nate nell’India induista, una ragione vagamente fondata ci deve essere.

E senza analizzare la storia delle discipline alternative in Occidente, c’èra la Anna (mia madre) lì a confermarlo. La Anna fà hatha yoga da 15 anni, e pur essendo iraconda di natura, pare tenga la rabbia abbastanza sotto controllo, so far. E a 60 anni ci’ha un fisico bestiale.

Poi si è trattato di orientarsi nell’offerta dell’Oriente.

Perchè l’hatha yoga (che è l’aspetto di esercizio fisico della filosofia yoga) nei secoli e poi recentemente ha subito mille diramazioni, correnti, sotto-derivazioni, varianti e adattamenti della corrente principale. Di solito a noi arrivano gli adattamenti nordamericani (California e New York gli epicentri).

Hatha Yoga

Raja Yoga

Ashtanga Yoga

Vinyasa Yoga

Iyengar Yoga

Mandala Yoga

Mantra Yoga

Pilates

Dainami

..

Poi attorno allo yoga, a rendere ancora più intricata la faccenda e a confondere il neofita, si aggroviglia la matassa ayurvedica addomesticata ed edulcorata, che o ti conquista e inebetisce o ti rende scettico a vita. 

L’ayurveda (termine sanscrito, come yoga) è la medicina tradizionale indiana (come esiste la medicina tradizionale cinese), e per provarla seriamente bisognerebbe andare in Kerala e blindarsi per un mese in un centro di cura, dove vige disciplina ferrea. 

La versione edulcorata l’ha sbriciolata in tanti pezzetti, e se non sei un cultore della materia ti fluttuano in testa oggetti molli come chakra, agopuntura, tisane ayurvediche, massaggi, taoismo, sesso tantrico.

Ecco, io non sono cultore della materia, e infatti non so bene di cosa sto parlando.

Non ho scelto scientemente il Vinyasa Yoga, piuttosto sono capitata in questo spazio-tempo, Milano-anni Duemila, quando il Vinyasa Yoga è chissàperchè di moda (mi piace scriverlo maiuscolo, e ho quasi imparato a mettere la y al posto giusto, questione di pratica). Il vinyasa è il movimento che unisce le asanas in questo yoga dinamico, antica variante dell’hatha. Viene chiamato ‘danza del respiro’, è un’onda continua, non ci sono pause.

Dopo due anni un po’ altalenanti (non sono costante nemmeno in questo) ho la vaga impressione che mi faccia molto bene, non solo per il fisico scolpito nel granito.

Ma mi rende appagata?

Cosa significa sentirsi appagati? Provare pienezza, felicità, soddisfazione, benessere, raggiungere un obiettivo a lungo cercato, sentirsi in pace con se stessi e con gli altri, non essere incazzati. A me basterebbe non essere incazzata. Ieri ho conosciuto la moglie brasiliana di un amico del procione, non proprio la brasiliana dell’immaginario, e sono rimasta disarmata di fronte al suo sorriso e alla sua energia. Tutti gli stereotipi sono così veri?

Momentaneamente appagati, non è certo una condizione permanente. Nessuna condizione in realtà è permanente. Tutto scorre, dentro e fuori.. 

Essere appagati come dopo un altro tipo di pratica, quella sessuale? L’orgasmo appaga? L’orgasmo dà lo stesso tipo di appagamento dello yoga? Nello yoga non c’è vertigine, non ci si annulla, al contrario c’è consapevolezza assoluta. Ma l’appagamento è il momento che segue il raggiungimento dell’estasi, o della piena soddisfazione. Per andare a fondo dovrei avviare il procione allo studio del sesso tantrico, dove l’uomo ritarda l’eiaculazione al limite del possibile (..) per prolungare e amplificare il piacere di entrambi, e conoscere una piccola morte memorabile. Già mi immagino la reazione:’Ma noi siamo procioni!’. Eh.

What else?

Una soddisfazione professionale, una chiaccherata con un vero amico, una goduria gastronomica, un momento di bellezza (vedere qualcosa che mi soddisfa esteticamente). Quanto c’è ancora in queste situazioni dell’eredità romantica, no perchè forse noi siamo ancora là soli sulla cima della montagna.

Alla fine della pratica, sento che il corpo non è un ostacolo, le tensioni si sciolgono, i pensieri scorrono più fluidi, la mente si dilata, mi trovo per un attimo in un’altra dimensione.

Forse provo qualcosa di simile in quell’attimo di piccola euforia e testa vuota che segue un acquisto (sono una shopaolic in fase di lenta redenzione), o in quel momento preciso in cui ho bevuto il superalcolico giusto (a Shanghai ho scoperto un’affinità con il Lychee Martini) nel contesto giusto (lo spazio attorno, la gente, la musica, il caldo), o quando prendevo le benzo, appena ingoiate le capsule, quando tutto si ferma e il cuore rimbomba. Ma questo è sballo passeggero, sono reazioni chimiche, neurotrasmettitori complici.

Nello yoga non c’è sballo, ma controllo che gradualmente diventa assoluto, o relativamente assoluto.

Un controllo che porta all’appagamento e non dà assuefazione nè controindicazioni chimiche.

Ecco perchè Cindia vincerà, guerre di religione permettendo.

Talento

Mentre Gianluca Nicoletti lancia su facebook e discute in radio il suo primo brief della settimana che riguarda la mediocrità, io da qui dentro (c’è ancora l’eco) penso ai miei numerosi e inutili talenti. Già mi vedo spintonare nel folto gruppo dei dilettanti-presuntuosi-naif che hanno passato la vita a crogiolarsi nei doni di natura, senza coltivare veramente una capacità, senza diventare davvero bravi in qualcosa, distratti dall’ego, viziati da contesti rassicuranti.

Volevo essere architetto? Abbastanza.

Nel senso che prima di essere portata per la collottola ad iscrivermi ad Architettura avevo fatto:

– Esame per entrare alla scuola Interpreti e Traduttori di Trieste per studiare il cinese. Pioveva ed era il 1991. Direi che bisognerebbe sempre seguire il proprio istinto. Viva Cindia.

– Colloquio allo IED di Milano per diventare fashion designer. ‘Non è una laurea, io mi oppongo’ disse il padre libero professionista che fino a quel momento si era sempre fatto i cazzi suoi nelle famiglie successive (il prode ha collezionato quattro divorzi, not too bad, Chicca Profumo Dreamachine userebbe il termine ferita originaria).

– Chiaccheratina con l’amico di famiglia psichiatra (un amico interessato) per sondare la possibilità di passare nove anni in medicina + specializzazione. Quell’estate mi ero letta Lezioni di Psicoanalisi, Totem e Tabù, Psicopatologia della vita quotidiana, Introduzione alla Psicoanalisi. Risultato: sono entrata in analisi.

– Pensierino su Lettere e Filosofia, stroncato dopo accorta analisi e quadrato scemiotico frustrazione-soddisfazione insieme alla disillusa mammaprofe.

E’ chiaro che non avevo le idee chiare.

Ero confusa dal dibattito tra le mie identità multiple. Altamente influenzabile. Dispersiva. Insomma: avevo troppi piccoli talenti potenziali.

Attenzione, qui scatta la megalomania annegata nell’amarcord, si può saltare il paragrafo grigio perla e andare a ‘Nella mia confusione’ (nostalgia dei primi libri-giochi di ruolo pre-digitali, prima di incontrare John Maeda).

E’ sempre stato così….(parte musica di Fellini)

….Al liceo scientifico ero brava in tutte le materie. Media imbarazzante. Giuro. Vergogna. Orgoglio. Tutte quelle storie su chi è bravo a scuola non è bravo nella vita. Forse un po’ più brava nelle materie umanistiche, mi piaceva scrivere (un sacco di corsivi oggi). Leggevano in classe i miei temi e le mie prose liriche. Giuro. Vergogna. Orgoglio. Mi sto anche un po’ sulle palle. Chissà i compagni.

In seconda liceo ho scritto un monologo interiore di Didone la sera prima di veder partire Enea, in una Cartagine in costruzione. Figata.

In terza liceo ho scritto una prosa lirica dal campanile della basilica di Aquileia come report del ‘viaggio di istruzione’ (ex ‘gita scolastica’). Non lo chiamavamo report. Quanto mi sto sulle palle.. Me la ricordo ancora (sale volume musica di Fellini):

Di colpo, grigia immensità.

Verdi cuciti e poi dissolti in una cieca luminosità.

Umidi pensieri rincorrono filari lontani.

Pareti erose da arcane illusioni nel vuoto geometrico.


Dai, non è così male! Forse arcane illusioni... Ma vuoto geometrico, suvvia. Umidi pensieri mmmmh protoerotico.

In quarta liceo ho scritto una prosa lirica dallo studiolo di Federico da Montefeltro come report del ‘viaggio di istruzione’ a Urbino:

Ho visto linee convergenti allungarsi nel silenzio.

Le ho seguite fino a scoprire piani sovrapposti di tempo e di spazio.

Ho penetrato il passato

raccolto in labirinti di eco

disciolto in acquerelli argentati.

Ho sentito le linee

chiudersi in immagini di gloriose armonie

moltiplicarsi in simmetrie trasparenti.

Ho racchiuso i loro sguardi dentro una bifora bianca.

 


Bifora Bianca, wow.

 


…Alle elementari scrivevo poesie bellissime (il volume sale ancora):


Dentro di me c’è un vuoto.

Una parte di me è fuggita,

una parte di me se ne è andata.

Ora,

cercando di vivere,

mi accorgo che quel vuoto è la sua morte.


…Al liceo mentre ascoltavo le lezioni – perché ovviamente io ascoltavo – disegnavo donne stilizzate sul banco, per la gioia dei bidelli. Di continuo. Riempivo i banchi di donne fumetto elegantissime grafite. Periodicamente me li facevano pulire con l’alcool. Che peccato. Mi ero anche inventata un fumetto, ‘I Nasons’. Assomigliavano ai Mordillo, ma più grassi e più attenti al look. Ho conquistato il più figo della scuola con I Nasons. Che bei ricordi.

Nella mia confusione quindi sono diventata Architetto. Si sa che gli architetti molto raramente fanno gli architetti. Ovviamente ero molto brava, con altra media imbarazzante etc., lodi a pioggia etc., Erasmus di 12 mesi a Pariggi nel quartiere di Pennac, tesi progettuale in Svizzera, lavoro trovato prima della laurea in studio fiko, altri lavori trovati facili in studi milanesi altrettanto fiki…ok, adesso la pianto, poi ‘sto post mi diventa un CV delirante.

Dopo un anno di sacrifici (..), l’illuminazione: perchè devo passare dieci anni a fare lo schiavo di ‘sti stronzi non pagata? Nessuno me l’aveva detto mentre facevo disegni e rilievi di altari in umide chiese gotiche a Venezia (l’umido ritorna), mentre costruivo maquette in balsa di moduli di edificio teatro-mercato a Belleville.

Quindi ho fatto un Master di un anno e mezzo full time in Innovazione di Sistema Prodotto. E sono entrata in azienda, sono finita all’estero negli headquartes, nei centri di sviluppo, come promotore dell’innovazione, come colui che scardina gli schemi vecchi. E sono diventata marketingmanager. E mi sono inventata prodotti inutili. E ho guadagnato un sacco di soldi utili.

Dopo otto anni di successi (..), l’illuminazione: perchè devo lavorare 12 ore al giorno e vivere in blackberry (vedi post, non so taggare) e sprecare la mia creatività per questi stronzi aridi aziendali profumatamente pagata? Nessuno me l’aveva detto mentre partecipavo a workshop con Alessi e Reggio Children per pensare all’evoluzione della famiglia di prodotti a carattere ludico, mentre si progettavano concept store Illy per controllare la total brand experience, mentre studiavo il modo di aprire un nuovo ramo di ricerca blue sky sull’arte contemporanea in Philips Design per contribuire ai progetti di Experience Design.

Tutto questo per dire cosa? Meglio essere molto bravi in una cosa (non bravini in tante), magari bella concreta e produttiva come i numeri e finire alla Lehman Brothers? A che serve avere talento per la scrittura e il disegno? Per la parola e l’immagine? Che ne è del talento se non lo si coltiva? Che fine fa? Dove va? Si può recuperarlo e nutrirlo dopo i trenta e dopo vari auto-depistaggi? Ha senso?

Quante chances abbiamo?

Forse (è un’ipotesi) se non sono diventata scrittrice o giornalista o art director è perchè non era destino, non era una vera vocazione, altrimenti sarebbe successo.

Forse questi piccoli talenti sono comunque tornati utili, li ho sfruttati per scrivere comunicati stampa indimenticabili, inventarmi headlines accattivanti, dare un nome nuovo e sinuoso a prodotti per il corpo, dare nomi affascinanti ed evocativi a profumi, decidere senza indugi quale scatto fosse il più giusto per la campagna tra i mille dello shooting, quale pantone fosse il migliore per il pack interno o per la couvette degli agenti.

E forse tutto questo è successo perché me lo sono potuto permettere, me l’hanno permesso, ho sempre sentito le spalle coperte. Se non avessi avuto le spalle coperte nei momenti di illuminazione e scarto, col cavolo che mi sarei data la seconda, la terza chance.